Japan Folklore: Miko

Miko (巫女)

“Vergini del tempio”

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Abbiamo visto questa figura in diversi anime: Rei Hino aka la coraggiosa Sailor Mars di Bishōjo senshi Sērā Mūn, la misteriosa Kikyō di Inuyasha, oppure le simpatiche gemelle Hiiragi di Lucky Star.

Tutti questi personaggi avevano in comune la stessa occupazione: erano miko, quelle fanciulle che si prestano a tuttofare nei templi Shintoisti gestendo varie funzioni. Troviamo quindi le miko impegnate ad aiutare il  sacerdote nelle sue funzioni, a tenere pulito il tempio e a raccogliere le offerte dei fedeli.

Definire questa figura secondo canoni occidentali è molto difficile. Le miko non sono assimilabili alle suore Cristiane, né sono dei veri e proprio Sacerdoti, benché nello Shintoismo è possibile che tale funzione sia ricoperta anche da una donna. Sono più simili forse agli oracoli dell’antica Grecia, o a delle sciamane, dato che nell’antichità a loro era data la possibilità di comunicare con i kami,  divinità Shintoiste. Entrando in trance, esse potevano intercedere presso gli dei per poi comunicare il loro volere agli uomini. Le loro doti divinatorie e la loro capacità di comunicare con il mondo degli spiriti erano riconosciute come volere Divino.

Le origini

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La loro origine risale al periodo Jōmon, la Preistoria Giapponese, che va da circa il 10000 a.C. al 300 a.C. Una delle menzioni più antiche e storicamente accertate di qualcosa si simile alla parola miko si ritrova nel nome della regina sciamana Himiko (175 circa – 248). Ella era la  regnante dello Yamatai, il più potente tra i regni in cui era suddiviso il Giappone arcaico. Non sappiamo però se Himiko fosse una miko o meno.

La parola ‘miko’ è composta dai kanji 巫 (“shamano, vergine non sposata”),  e 女 (“donna”), e generalmente viene tradotto come ‘vergine del tempio’. Anticamente era scritto come  神子 “Bambino di dio” o “Bambino divino”.

La forte connessione con le divinità era data anche dal fatto che le miko ballavano il Kagura (神楽), letteralmente “Intrattenimento per gli dei o musica degli dei”. Questa è un’antica danza sacra Shintoista che affonda le sue radici folklore giapponese legandosi alla dea dell’alba Ama-no-Uzume. Si dice infatti che la dea con questa danza riuscì a convincere Amaterasu, la dea del sole, ad uscire dalla caverna in cui si era rifugiata dopo aver litigato con il fratello Susanoo, il dio della tempesta.

La danza kagura veniva spesso presentata anche presso la corte imperiale da quelle miko che di fatto erano viste come le discendenti della dea Ama-no-Uzume.

Nell’antichità, le miko erano erano figure sociali essenziali, ed era questo un ruolo che prevedeva  grossi impegni e responsabilità. La loro discendenza e connessione con il divino le identificava come messaggere del volere del kami, ma non solo. Le poneva infatti anche nella posizione di influenzare la vita sociale e politica, e di fatto quindi le sorti del villaggio presso cui prestavano servizio.

Attraversarono però una notevole crisi a partire soprattutto dal periodo Kamakura (1118-1333). Si cominciò infatti a porre un freno alle loro pratiche sciamaniche e le miko, senza più fondi, furono costrette a mendicare.  Alcune scivolarono tristemente verso la prostituzione.

Dopo un periodo di grandi trasformazioni in epoca Edo, nel 1873, per volere del “Dipartimento degli Affari Religiosi” (教部), fu emanato un editto chiamato Miko Kindanrei (巫女禁断令). Esso proibiva ogni pratica spirituale alle giovani miko.

Come si diventava miko?

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Il percorso per diventare miko era lungo e difficile. Scelta dal clan  in base alla propria forza spirituale o per discendenza diretta da una sciamana, la fanciulla iniziava la sua preparazione in giovane età, in genere con il primo mestruo.  Ci volevano dai tre ai sette anni di per diventare una vera miko.

Le ragazze erano solite lavarsi in acque gelide, praticare l’astinenza, e compiere altri riti come atti di purificazione. Il tutto era volto a imparare a controllare il suo stato di trance.

Imparavano una lingua segreta che solo loro e gli altri sciamani conoscevano, e dovevano conoscere il nome di ogni kami rilevante per il loro villaggio. Imparavano anche l’arte divinatoria della chiaroveggenza e le danze per poter entrare in stato di trance  e parlare con le divinità.

Al completamento di questo percorso si svolgeva una cerimonia che simbolicamente rappresentava il matrimonio tra la miko e il kami che avrebbe servito. Vestita con un abito bianco che ne rappresentava la vita precedente, la fanciulla entrava in uno stato di trance e le veniva chiesto quale kami avrebbe servito. Dopo di che, le veniva tirato un dolcetto di riso sul viso provocandone lo svenimento. Veniva poi adagiata in un letto caldo fino al suo risveglio, quando avrebbe vestito un kimono colorato per indicare l’avvenuto matrimonio tra lei e la divinità.

In virtù di questo legame con la divinità le giovani dovevano restare vergini. Ci sono state però miko con una particolare forza spirituale che hanno potuto continuare il servizio anche dopo il loro matrimonio.

Le miko oggi

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Oggigiorno la figura della miko esiste ancora ma sono per lo più giovani ragazze universitarie che lavorano part-time presso il tempio. Assistono il kannushi o  ‘uomo di dio’ nelle varie funzioni e riti del tempio, compiono danze cerimoniali, tengono pulito il tempio e vendono omikuji, fogli di carta cui è scritto una predizione divina. In genere non hanno bisogno di una preparazione specifica e non devono essere necessariamente vergini, anche se è ancora richiesto che siano non sposate. La danza kagura è divenuta una semplice danza cerimoniale e non più un mezzo per entrare in contatto con l’entità divina.

Il loro abito tradizionale e composto nella parte superiore da un haori bianco che ne rappresenta la purezza, e nella parte inferiore da un  hakama,  “pantalone” rosso fuoco. Rossi o bianchi sono anche i nastri che ne legano i capelli.

Durante le cerimonie usano campanelli, rametti di sakaki, o intonano preghiere suonando un tamburo. Tra gli altri oggetti rituali è presente anche lo azusa-yumi, un arco che veniva usato per cacciare via gli spiriti maligni. In passato usavano anche specchi per richiamare il kami o delle kataka.

Magari le miko hanno perso la loro connessione divina, ma non la tradizione millenaria che le lega alla cura del tempio, restando una delle figure femminili più famose del Giappone ancora ai giorni nostri.

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