Japan History: I Samurai

I Samurai

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Il nome Samurai deriva dal verbo saburau che vuol dire “servire” o “tenersi a lato”, letteralmente “colui che serve”. In giapponese, durante il periodo Heian (794-1185), si pronunciava saburapi e più tardi saburai.

Altro nome con cui era conosciuto il samurai è bushi (武士). Questo termine appare per la prima volta nel  Shoku Nihongi (続日本紀, 797 d.C.), un antico documento giapponese racchiuso in quaranta volumi. Esso raccoglie le più importanti decisioni di stato prese dalla corte imperiale tra il 697 d.C. e il 791 d.C. . In una parte del libro si dice: “I samurai sono coloro che formano i valori della nazione”.

Secondo il libro Gli ideali del samurai di William Scott Wilson, le parole bushi e samurai sono diventate sinonimi alla fine del XII secolo. Wilson esplora a fondo le origini della parola  “guerriero” nella cultura giapponese senza tralasciare i caratteri kanji con cui viene scritto. Egli afferma che bushi in realtà si traduce con “l’uomo che ha la capacità di mantenere la pace, con la forza militare o letteraria”.

Saburai è stato sostituito da samurai agli inizi dell’era moderna, alla fine del periodo Azuchi-Momoyama (1573–1603) e agli inizi del periodo Edo del tardo XVI e XVII secolo.

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I Samurai servivano i daimyō, feudatari locali che rispondevano allo shogun. Quando questo moriva o ne perdeva la fiducia, il samurai diventava Rōnin, ovvero “uomo onda”, inteso come “libero da vincoli”.

Il bushidō,  il codice d’onore dei samurai, prevedeva che per espiare la propria colpa e riacquistare l’onore perduto si dovesse ricorrere alla pratica dello harakiri, che significa “tagliare il ventre” . L’harakiri rappresenta la parte culminante della pratica del suicidio rituale denominato seppuku, attraverso lo sventramento del ventre con la spada corta wakizashi. Il venir meno a questi principi causava il disonore del guerriero che diventava un rōnin appunto, ossia un samurai errante, alla deriva, senza onore né dignità.

Il significato della parola ronin assumeva dunque un carattere dispregiativo, soprattutto nell’era Tokugawa (1603- 1868), l’epoca di massimo isolamento e splendore del Giappone. In questo periodo i ronin giravano per le campagne intimidendo i contadini e saccheggiando villaggi, in cerca di un nuovo signore a cui prestare servizio.

Un rōnin poteva essere disposto a lavorare per chiunque lo pagasse, oppure poteva arrivare a unirsi ad altri come lui e creare scompiglio. Questi guerrieri erano disprezzati dai samurai veri e propri, tant’è che nessuno era chiamato a rispondere della loro uccisione. Ma i ronin avevano anche un altro ruolo. Capitava infatti che si unissero a mercanti, contadini e artigiani per difendere i villaggi dai saccheggi dei briganti, insegnando tecniche di guerra e le arti marziali. Costituivano una sorta di guardia del corpo (yojimbo) auto organizzata.

Si pensa che questa specie di polizia privata possa essere all’origine della yakuza, la moderna mafia giapponese. I suoi affiliati hanno infatti in comune con i samurai un forte senso di appartenenza ai clan e una lealtà assoluta verso il proprio “boss”.

Questi sono alcuni termini usati come sinonimo di samurai.

•Buke 武家 – un appartenente a una famiglia militare, un suo membro;

•Mononofu もののふ – termine arcaico per “guerriero”;

•Musha 武者 – abbreviazione di bugeisha 武芸者, letteralmente “uomo delle arti marziali”;

•Shi 士 – pronuncia sinogiapponese del carattere che comunemente si legge samurai

•Tsuwamono 兵 – termine arcaico per “soldato”, reso celebre da un famoso haiku di Matsuo Basho; indica una persona valorosa;

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L’addestramento cominciava dai 3 anni, e fino ai 7 consisteva nell’imparare a non temere la morte ed il combattimento, e ad obbedire al proprio signore, controllando la mente ed il corpo. Per temprare il corpo, venivano sottoposti a docce gelate sotto le cascate o nella neve, così che potessero imparare a resistere agli stimoli esterni. Si passava poi all’insegnamento dell’uso dell’arco e della spada contro nemici immaginari.

A 12 anni erano già in grado di uccidere.

Il legame con gli addestratori poteva diventare molto speciale. In epoca feudale le pratiche sessuali tra uomini erano all’ordine del giorno per i guerrieri samurai. Secondo la tradizione dello shudo – da wakashudo (la “Via degli adolescenti”) – i giovani trascorrevano diversi anni a contatto con uomini più grandi. Uomini che oltre ad iniziarli alle tecniche di combattimento li introducevano al mondo del sesso. Gli apprendisti samurai ne divenivano allora gli amanti ufficiali, in un rapporto che era riconosciuto ed esigeva, naturalmente, fedeltà assoluta.

I samurai lavoravano per la gloria del daimyō, ma il loro stipendio si limitava a una paga in riso. Per mantenere il proprio status sociale, i samurai che non erano già ricchi di famiglia si arrangiavano come potevano con lavoretti secondari, come la fabbricazione di ombrellini o stuzzicadenti. Li facevano vendere ad altri, però, per non compromettersi troppo.  Avevano però anche diversi privilegi: avere un cognome, che la gente comune in Giappone non aveva, e quello del kirisute gomen, ossia l’ “autorizzazione a tagliare e abbandonare”. Il samurai poteva cioè uccidere chiunque gli avesse mancato di rispetto, se di rango inferiore. L’unico scrupolo era riuscire a dimostrare successivamente, in sede legale, il torto subito.

Per quanto riguarda la vita sentimentale,  la moglie dei samurai veniva scelta a tavolino. Essa doveva appartenere a una stirpe guerriera, oppure essere “adottata” da una famiglia di samurai che ne nobilitasse le origini prima del matrimonio. Alle spose dei samurai toccava però un “privilegio” (si fa per dire): col matrimonio guadagnavano il diritto di praticare anch’esse il suicidio rituale, il jigai, con un taglio alla gola.

Nel Giappone medievale si potevano incontrare anche donne samurai addestrate nei valori e nell’arte marziali della casta fin da giovanissima età. I Samurai di questa casta praticavano arti marziali, lo zen, il cha no yu (arte del té) e lo shodō (arte della scrittura). Nell’era Tokugawa persero la loro funziona militare diventando molti di loro semplici rōnin. Alla fine del periodo Edo i samurai erano diventati burocrati al servizio dello shōgun o del daimyō, e la loro spada veniva usata solo per scopi cerimoniali per sottolineare la loro appartenenza alla casta.

Con il rinnovamento Meiji e l’apertura del Giappone al mondo occidentale nel XIX secolo, la classe dei samurai fu abolita poichè ritenuta anacronistica e fuori dal tempo. Al suo posto fu favorito un esercito in stile occidentale. Due leggi, sotto l’Imperatore Meiji (1852-1912), segnarono la fine dei samurai. Una, l’editto Dampatsurei, obbligò i servi guerrieri a rinunciare al codino e a portare i capelli all’occidentale. L’altra, meno di “facciata” e ancora più determinante, fu l’editto Haitorei, che li privò del diritto di portare armi in pubblico. Ai samurai senza katana non rimase che una piccola pensione statale, e il rifugio nel folclore.

Ma il bushidō continua tutt’oggi a sopravvivere nella società Giapponese odierna.

Le Armi

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I samurai usavano una grande varietà di armi, anzi un’evidente differenza tra la cavalleria europea e i samurai riguarda proprio l’impiego delle armi. I samurai non ritennero mai che esistessero armi disonorevoli, ma solo armi efficienti e inefficienti. L’uso delle armi da fuoco costituì una parziale eccezione, in quanto fu fortemente scoraggiato durante il XVII secolo dagli shogun Tokugawa. Si arrivò a proibirle quasi completamente e ad allontanarle del tutto dalla pratica della maggior parte dei samurai.

Nel periodo Tokugawa si diffuse l’idea che la katana contenesse l’anima del Samurai, e a volte sono stati descritti (erroneamente) come totalmente dipendenti dalla spada per combattere.

Raggiunti i tredici anni, in una cerimonia chiamata genpuku, ai ragazzi della classe militare veniva dato un wakizashi (lo spadino utilizzato anche per suicidarsi) e un nome da adulto. Diventavano così vassalli, cioè samurai a tutti gli effetti. Questo dava loro il diritto di portare una katana, sebbene venisse spesso assicurata e chiusa con dei lacci per evitare sfoderamenti immotivati o accidentali. Insieme, katana e wakizashi, vengono chiamati daishō (letteralmente: “grande e piccolo”). Il loro possesso era la prerogativa del buke, la classe militare al vertice della piramide sociale. Portare le due spade venne vietato nel 1523 dallo shogun ai cittadini comuni che non erano figli di un samurai, per evitare rivolte armate, perché prima della riforma tutti potevano diventare samurai.

Ma oltre alla spada, un’altra importantissima arma dei samurai, era lo shigetou, l’arco asimmetrico giapponese, e ciò non fu modificato per secoli, fino all’introduzione della polvere da sparo e del moschetto nel XVI secolo.  Lo shigetou, lungo 2 metri e fatto di legno laminato e laccato,era arma di esclusiva pertinenza dei samurai. Fino alla fine del XIII secolo la via della spada (kendo) fu meno considerata della via dell’arco da molti esperti di bushidō. Un arco giapponese era un’arma molto potente: le sue dimensioni permettevano di lanciare con precisione vari tipi di proiettili (come frecce infuocate o frecce di segnalazione) alla distanza di cento metri. Arrivavano addirittura fino a duecento metri quando non era necessaria la precisione.

Durante l’era di più grande potere dei samurai il termine yumitori (arciere) veniva utilizzato come titolo onorario per un guerriero, anche quando l’arte della spada divenne la più importante. Gli arcieri giapponesi (vedi arte del kyūjutsu) sono ancora fortemente associati con il dio della guerra Hachiman.

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L’arco veniva usato solitamente a piedi, dietro un tedate, un largo scudo di legno, ma poteva essere usato anche a cavallo. La pratica di tirare con l’arco da cavallo divenne una cerimonia shinto detta yabusame. Nelle battaglie contro gli invasori mongoli, questi archi furono l’arma decisiva, contrapposti agli archi più piccoli e alle balestre usate dai cinesi e dai mongoli.

Nel XV secolo anche la lancia (yari) divenne un’arma popolare. Lo yari tese a rimpiazzare la naginata allorquando l’eroismo individuale divenne meno importante sui campi di battaglia e le milizie furono maggiormente organizzate. Nelle mani dei fanti o ashigaru divenne più efficace di una katana, soprattutto nelle grosse cariche campali. Nella battaglia di Shizugatake, in cui Shibata Katsuie fu sconfitto da Toyotomi Hideyoshi, i cosiddetti “sette lancieri di Shizugatake” ebbero un ruolo cruciale nella vittoria.

Completavano il corredo i ventagli da guerra con i bordi affilati come coltelli, ma per diverse epoche della storia giapponese i samurai furono i soli a poter portare armi.

Il Seppuku

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Seppuku (切腹) è un termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai. In Occidente viene usata più spesso la parola harakiri (腹切り). A volte in italiano viene erroneamente pronunciato come “karakiri”, con pronuncia e scrittura errata dell’ideogramma hara.

Nello specifico seppuku e harakiri presentano alcune differenze, qui di seguito spiegate.

La traduzione letterale del termine seppuku è “taglio dello stomaco”, mentre per harakiri è “taglio del ventre” e veniva eseguito secondo un rituale rigidamente codificato. Esso era un modo per espiare una colpa commessa o un mezzo per sfuggire a una morte disonorevole per mano dei nemici. Un elemento fondamentale per la comprensione di questo rituale è il seguente: si riteneva che il ventre fosse la sede dell’anima.Il significato simbolico di questo atto era dunque quello di mostrare agli astanti la propria anima priva di colpe in tutta la sua purezza. Ma anche l’estremo gesto di orgoglio e libertà di un samurai seguiva regole rigidamente codificate. Il sacrificio si doveva consumare davanti a testimoni utilizzando il pugnale (tantō) o la spada corta (wakizashi) ed eseguendo un taglio a “L”, che partiva dall’ombelico e si allungava da sinistra a destra, e poi verso l’alto.

I piedi con le punte rivolte verso il basso garantivano che il moribondo seduto sulle ginocchia cadesse in avanti, coprendo lo scempio di sangue e budella. La presenza di testimoni e del kaishakunin, l’assistente incaricato di finire il ferito con un colpo di katana al collo, assicurava che la vittima non soffrisse ulteriormente (e non avesse ripensamenti).

Il kaishakunin era un fidato compagno del samurai che, previa promessa all’amico, lo decapitava appena egli si era inferto la ferita all’addome, per fare in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto e preservandone l’onore.

Alcune volte praticato volontariamente per svariati motivi, durante il periodo Edo (1604–1867) divenne una condanna a morte che non comportava disonore. Infatti il condannato, vista la sua posizione nella casta militare, non veniva giustiziato, ma invitato o costretto a togliersi da solo la vita praticandosi con un pugnale una ferita profonda all’addome di una gravità tale da provocarne la morte.

La decapitazione (kaishaku) richiedeva eccezionale abilità e infatti il kaishakunin era l’amico più abile nel maneggio della spada. Un errore derivante da poca abilità o emozione avrebbe infatti causato notevoli ulteriori sofferenze. Proprio l’intervento del kaishakunin e la conseguente decapitazione costituiscono la differenza essenziale tra seppuku e harakiri. Infatti, sebbene le modalità di taglio del ventre siano analoghe, nell’harakiri non è prevista la decapitazione del suicida. Viene pertanto a mancare tutta la relativa parte del rituale, con conseguente minore solennità dell’evento.

Il più noto caso di seppuku collettivo è quello dei “quarantasette rōnin”, celebrato nel dramma Chushingura, mentre il più recente è quello dello scrittore Yukio Mishima avvenuto nel 1970. In quest’ultimo caso, il kaishakunin Masakatsu Morita, in preda all’emozione, sbagliò ripetutamente il colpo di grazia, e ciò richiese l’intervento di Hiroyasu Koga, che decapitò lo scrittore.

Una delle descrizioni più accurate di un seppuku è quella contenuta nel libro Tales of Old Japan (1871) di Algernon Bertram Mitford, ripresa in seguito da Inazo Nitobe nel suo libro Bushido, L’anima del Giappone (1899).

Nel 1889, con l’introduzione della costituzione Meiji, venne abolito come forma di punizione ma casi di seppuku si ebbero al termine della seconda guerra mondiale tra gli ufficiali, spesso provenienti dalla casta dei samurai, che non accettarono la resa del Giappone.  Un caso celebre fu quello dell’anziano ex daimyō Nogi Maresuke che si suicidò nel 1912 alla notizia della morte dell’imperatore.

Con il nome di jigai, il seppuku era previsto, nella tradizione della casta dei samurai, anche per le donne. In questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola, dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l’agonia.

L’arma usata poteva essere il tantō (coltello), anche se più spesso, soprattutto sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, detto per questo “guardiano dell’onore”.

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Il Bushidō

Il guerriero giapponese viveva e moriva secondo un rigido codice di comportamento, il bushidō (la via del guerriero), che regolava il rapporto unico e inscindibile tra il samurai e il suo daimyō. Alla base di questo codice c’era la fedeltà assoluta, una rigida definizione di onore e il sacrificio del bene del singolo in favore del benessere comune. È questa l’etica alla base delle azioni anche dei kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale e di cui si avvertono strascichi in alcune aziende nipponiche moderne.

Qualora un’offesa o una grave colpa avesse incrinato questo rapporto, c’era sempre una via per salvare l’onore: il seppuku o harakiri, il suicidio rituale.

I precetti dei samurai furono pesantemente influenzati dalle principali correnti spirituali e culturali giapponesi. Verso il 1000 era ancora lo shintoismo la principale fonte di ispirazione per i samurai, corrente che sottolineava la fedeltà all’imperatore, in un’epoca in cui essere samurai voleva dire essere un guerriero abile. Successivamente però concetti taoisti, buddisti e confuciani iniziarono a diffondersi e a sovrapporsi tra lori. In particolare ebbero grande fortuna, dopo il buddismo cinese, il buddismo zen e il buddismo esoterico. Quest’ultimo era praticato soprattutto nelle casate nobili più ricche e potenti, mentre il buddismo zen era praticato anche a livello di piccole scuole e fra i rōnin. In quest’epoca si diffusero molte scuole che associavano ai doveri del samurai l’obbligo di svolgere i propri compiti non solo al massimo delle proprie capacità, ma anche con grazia ed eleganza. Ciò voleva dire dimostrare attraverso il gesto la propria superiorità. Questa pratica che fu molto contestata nel XVI secolo, è rimasta in molte scuole di pensiero samurai.

I guerrieri del 900 erano divenuti, prima del 1300, raffinati poeti, mecenati, pittori, cultori delle arti, collezionisti di porcellane, codificando in molte opere di bushido (fino al Libro dei cinque anelli) una precisa necessità. Un samurai doveva infatti essere esperto in molte arti, non solo in quella della spada. La prima grande codificazione di questa svolta avvenne nello Heike Monogatari, opera letteraria più famosa del periodo Kamakura (1185-1249). Quest’opera attribuiva alla via del guerriero l’obbligo dell’equilibrio tra la forza militare e la potenza culturale. Gli eroi di questa epopea (la storia di una lotta tra due clan, i Taira e i Minamoto) e di altre che si ispirarono a questa negli anni immediatamente successivi, sono gentili, ben vestiti, molto attenti all’igiene, cortesi con il nemico nei momenti di tregua. Ma erano anche abili musicisti, competenti poeti, letterati talvolta particolarmente versati nella calligrafia o nella disposizione dei fiori. E ancora, era appassionati cultori del giardinaggio e spesso interessati alla letteratura cinese.

Inoltre, morendo, spesso mettevano in versi il proprio epitaffio.

Questa visione duplice dei compiti del samurai si affermò grandemente, fino a diventare egemonica. Hojo Nagauji (o Soun), signore di Odawara (1432-1519), uno dei più importanti samurai della sua epoca scrisse nei Ventuno precetti del samurai: “La via del guerriero deve sempre essere sia culturale, sia marziale. Non è necessario ricordare che l’antica legge stabilisce che le arti culturali dovrebbero essere rette con la sinistra e quelle marziali con la destra”. In questo egli sottolineava una certa predominanza per le arti marziali, ma da questo insegnamento trassero spunto numerosi samurai che divennero famosi tanto come spadaccini, quanto, e più, come esperti della cerimonia del tè, o come artisti, attori di teatro Nō e poeti. Imagawa Royshun (1325-1420), grande commentatore dell’arte della guerra di Sun Tzu, nelle sue Norme si era spinto oltre, affermando che “Senza conoscere la via della cultura, non ti sarà possibile raggiungere la vittoria in quella marziale”. Royshun aveva così creato un nuovo concetto di equilibrio tra cultura e guerra noto come bunbu ryodo (“non abbandonare mai le due vie”).

Lo stesso Miyamoto Musashi, uno dei più grandi duellisti del XVII secolo, divenne nella seconda parte della sua vita uno dei più grandi pittori di quel periodo. Concordava con Takeda Shingen (1521-1573), forse il più brillante generale del XVI secolo, che affermava come la grandezza di un uomo dipendeva dalla pratica di numerose vie.

Questo atteggiamento ovviamente provocò tutta una serie di aspre critiche. In particolare si ricorda l’avversione di Kato Kiyomasa (1562-1611) per tutto ciò che non era marziale e la sua opinione, condivisa da molte scuole “estremamente marziali”, era che un samurai dedito alla poesia sarebbe divenuto “effeminato”, mentre un samurai che avesse praticato il mestiere dell’attore o si fosse interessato al teatro Nō avrebbe dovuto suicidarsi per il disonore che arrecava al suo nome. Correnti di pensiero “estremamente marziali” e di rifiuto degli aspetti culturali della figura del samurai si diffusero notevolmente nei secoli successivi. Questo fatto potrebbe sembrare paradossale per un’epoca di pace (la cosiddetta Pax Tokugawa) durante la quale in piccoli dojo non solo si accettava l’etichetta, ma anzi la si studiava a fond. Al contempo però si intendeva anche ritornare al significato originario dell’essere samurai, il guerriero impavido.

Le differenti fonti di ispirazione culturale a cui erano soggetti i samurai (scintoismo, scintoismo esoterico, taoismo, buddismo cinese, buddismo della terra pura, buddismo zen, buddismo esoterico, confucianesimo ufficiale cinese, confucianesimo dei glossatori giapponesi ed epica classica giapponese) crearono scuole di pensiero e di pratica molto differenti.I principi di vita seguiti erano talvolta contrapposti o, più spesso, semplicemente complementari, anche grazie alla grande attitudine al pragmatismo e al sincretismo della cultura giapponese.

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Simbolo di tutte le arti marziali. Nell’iconografia classica del guerriero il ciliegio rappresenta insieme la bellezza e la caducità della vita, ed era per questo venerato.I sakura, durante la fioritura, mostrano uno spettacolo incantevole nel quale il samurai vedeva riflessa la grandiosità della propria figura avvolta nell’armatura. Ma è sufficiente un improvviso temporale perché tutti i fiori cadano a terra, proprio come il samurai può cadere per un colpo di spada infertogli dal nemico. Il guerriero, abituato a pensare alla morte in battaglia non come un fatto negativo ma come l’unica maniera onorevole di andarsene, rifletté nel fiore di ciliegio questa filosofia.

Un antico verso ancora oggi ricordato è “tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero” (花は桜木人は武士 hana wa sakuragi, hito wa bushi), ovvero “come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così il guerriero è il migliore tra gli uomini”.

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